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TFR in busta paga, rischio o beneficio?

La mossa del governo di aumentare la busta paga dei lavoratori tramite il versamento del TFR è un provvedimento a costo zero per lo Stato, ma a conti fatti è un vero vantaggio per il dipendente?

Dal 3 aprile scorso, così come previsto dalla Legge di Stabilità 2015, i lavoratori dipendenti italiani con più di 6 mesi di servizio alle spalle, hanno la possibilità di chiedere l'anticipazione della quota maturata di TFR direttamente in busta paga.

Previsto dapprima per il primo di marzo, il TFR in busta paga ha subito uno slittamento di 30 giorni a causa di alcune lungaggini burocratiche che hanno impedito alle aziende di pagare le prime quote già sugli stipendi di marzo, a causa della mancanza di regole chiare in materia.
Prima di vedere tutte le novità circa il TFR, in che cosa consistono e cosa questo comporti per il lavoratore, è bene esaminare alcuni aspetti importanti della disciplina generale.

Il TFR, ovvero, il Trattamento di fine rapporto, consiste in una quota del salario pari al 6,9% della retribuzione lorda che annualmente viene messe da parte per la liquidazione e per costruire una pensione di scorta privata, integrativa di quella pubblica.

All'accantonamento di base si deve aggiungere un’ulteriore quota dello 0,5%, così da raggiungere un 7,4% utile per alimentare un fondo di garanzia dell’Inps, che ne assicura il pagamento ai lavoratori sempre, anche qualora l’azienda fallisse.

Per quel che concerne la rivalutazione delle quote, bisogna sapere che i soldi per la liquidazione vengono rivalutati ogni anno di una quota fissa del 1,5%, più i tre quarti del tasso di inflazione. Se invece il TFR viene rivolto alla previdenza integrativa, la rivalutazione dipende dal rendimento del fondo pensionistico.

Quando, sotto forma di liquidazione viene riscattato, il TFR viene tassato con un meccanismo un po’ complesso che prende in considerazione l’aliquota media applicata sullo stipendio del lavoratore negli ultimi 5 anni che spesso corrisponde ad un 23%.
Nel caso in cui il Trattamento di fine rapporto fosse destinato alla previdenza integrativa, riscontreremmo una tassazione ultra-agevolata che arriva fino ad un 15% della rendita maturata e scende progressivamente fino al 9% con l’aumentare degli anni del piano di risparmio realizzato dal lavoratore.

Qualora il lavoratore si facesse liquidare il TFR direttamente in busta paga, gli incrementi di stipendio subirebbero una tassazione ordinaria e quindi sarebbero soggetti ad IRPEF e di conseguenza penalizzati dal punto di vista fiscale.

Da ricordare è che l’IRPEF è un’imposta progressiva con aliquote che variano tra il 23 ed il 43% in base al reddito. Di conseguenza, gli aumenti di stipendio generati dal trasferimento del TFR in busta paga, comporteranno per i lavoratori più tasse da pagare rispetto a quelle che attualmente versano avendo il regime della liquidazione nelle forme tradizionali, prima del nuovo regime.

Se il lavoratore aderisce alla previdenza integrativa, il TFR viene versato direttamente dall’azienda al fondo pensione. Se invece il lavoratore decide di mantenere la liquidazione nelle forme di regime tradizionale, gli accantonamenti attualmente vanno all’Inps.
Ciò avviene unicamente se l’impresa conta più di 50 addetti; mentre per quel che concerne le piccole aziende, con un organico fino a 49 dipendenti, i soldi restano nelle casse della stessa impresa.

I flussi del TFR che vengono accantonati ogni anno dai lavoratori valgono complessivamente 27 miliardi di euro, di cui circa 10 miliardi restano nelle casse delle aziende, oltre 5 miliardi vanno a finire nei fondi pensione e 12 miliardi finiscono all’Inps.
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