Il decreto Ronchi
"Chiare, fresche e dolci acque" recitava il Petrarca nel lontano XIV secolo... ma se il Poeta fosse vissuto ai giorni nostri, probabilmente, avrebbe scritto "care" e non più chiare acque.
Tale modifica potrebbe essere imputata non solo all'inquinamento atmosferico, ma anche alle recenti vicende che hanno portato alla privatizzazione del bene primario per eccellenza.
Il 19 novembre scorso, il Parlamento ha dato il via libera alla conversione in legge del cosiddetto
decreto Ronchi che, all'articolo 15, definisce i criteri per l'affidamento totale ai privati o a società miste pubblico-private dei servizi pubblici di rilevanza economica, quindi anche l'acqua. In particolare il decreto Ronchi prevede la cessazione delle società pubbliche per la gestione del servizio idrico entro la fine del 2011 e la diminuzione della quota di partecipazione pubblica, che passerà dall'attuale 51% al 30% entro il 2015. Tradotto in soldoni, vuol dire che i big dell'
oro blu quotati e controllati al 51% circa dal pubblico (
A2A, Acea, Acegas-Aps, Enia, Hera e Iride), per partecipare alla corsa dovranno mettere sul mercato un pacchetto azionario del 20% circa, portando denaro fresco nelle casse dei Comuni, che però a loro volta perderanno il controllo delle aziende. Sappiamo bene che l'acqua oltre ad essere incolore è anche inodore, eppure banchieri e finanzieri hanno fiutato sin da subito il profumo d'ingenti introiti per questo nuovo business.
La principale ragione che avrebbe portato alla privatizzazione della rete idrica riguarda la modernizzazione delle infrastrutture attraverso forti investimenti al fine di migliorare il servizio, oggi ricco di sprechi: tanto per quantificare il problema possiamo affermare che circa il 30% dell'acqua che passa nelle tubazioni non riesce a fuoriuscire dai nostri rubinetti!
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