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Il commercio di armi: si fa, ma non si dice

Chi produce le armi? A chi vengono vendute? E quanto vale questo business?

Armamenti aeronautici, armi chimiche, armi da lancio, armi da fuoco, contraeree, anticarro, armi nucleari. E, ancora, mine, missili, lanciafiamme, lanciagranate, esplosivi, aerei da caccia, bombardieri, carri armati... La lista di quelle che vengono comunemente chiamate "armi" è talmente lunga che Wikipedia ha dedicato all'argomento un intero portale.

Chi le produce? A chi vengono vendute? Quanto vale questo business? Sono tutte domande, queste, la cui risposta è abbastanza intuibile. Chiunque sa, ad occhio e croce, che i Paesi più industrializzati campeggiano nella top list dei produttori e che molte armi vengono vendute a Stati cosiddetti "non amici". Intuibili, dunque, ma tutt'altro che scontate. Perché l'argomento è talmente delicato, ampio e complesso che non si può contare su semplici statistiche di facile lettura. Innanzitutto, in linea teorica ogni Paese può produrre un'arma intera, oppure aderire ad un programma governativo di cooperazione internazionale e vendere componenti e/o materiali per la produzione, ad esempio, di aerei come l'Eurofighter o l'F35, fregate FREMM e alcuni tipi di missili. I programmi di cooperazione sono conteggiati in maniera diversa e spesso non rientrano nella classica voce "export".

In secondo luogo, molti Stati hanno controlli doganali inesistenti e il contrabbando di armi è all'ordine del giorno.
Infine, anche i Paesi più ligi a regole e trattati (ad esempio sull'embargo) possono adottare la cosiddetta pratica delle triangolazioni. La compravendita è cioè mediata da un Paese terzo che non aderisce ai vari trattati sulle armi, e funge da intermediario per gli scambi di merci e dei pagamenti fra il Paese produttore e quello sottoposto a embargo. Tra l'altro la mancata adesione ai trattati di embargo non è sanzionata.

Un business multimiliardario in mano a pochi

Che il business sia multimiliardario non è un mistero, anche se non esiste una cifra ufficiale. Lo Stockholm International Peace Research Institute, meglio noto come SIPRI, unico organismo che si prodiga con cadenza costante a fornire qualche dettaglio in più su questo argomento, fa sapere che nel 2011 il valore del commercio globale di armi era di almeno 43 miliardi di dollari, salvo poi precisare che la cifra è molto probabilmente più alta perché i dati forniti dai singoli Paesi sono spesso raccolti con metodologie e nomenclature differenti. Inoltre molti Stati, quali la Gran Bretagna, non forniscono statistiche sull'export mentre altri, quali la Cina, non rilasciano nemmeno altri dati affini.

Amnesty International parla invece di 80 miliardi di dollari precisando che nel 2012 si sono toccati quota 100 miliardi. Cifra, questa, che sale a 120 miliardi se si includono anche i servizi militari. Ancora più consistente il giro d'affari: sempre secondo il SIPRI, nel 2012 le spese militari sono ammontate a 1.700 miliardi di dollari, in lieve calo (-0,5%) per la prima volta dal 1998 ma pur sempre pari al 2,7% del PIL mondiale.

Quanto ai top exporter, l'unica classifica credibile è ancora una volta quella del SIPRI, che copre il periodo che va dal 2008 al 2012. Al primo posto ci sono gli Stati Uniti, seguiti da Russia, Germania, Francia, Cina, Gran Bretagna, Spagna, Italia, Ucraina e Israele.
Tra i maggiori importatori figurano, invece, in ordine, India, Australia, Corea del Sud, Singapore, Stati Uniti, Algeria, Arabia Saudita, Grecia, Cina e Emirati Arabi Uniti.
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