La gestione dei tabacchi in Italia
A quanto pare il fumo divenne presto un vizio diffuso anche nel Bel Paese al punto che, nel 1862, lo Stato assunse la produzione e la distribuzione dei tabacchi in regime di monopolio, con l'obiettivo di "massimizzare i proventi dello sfruttamento delle connesse attività economiche a favore dello Stato". Come si legge sul sito dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, il monopolio del tabacco "ha sempre dato uno straordinario apporto alla copertura dei fabbisogni economici dello Stato".
Con il regio decreto-legge del 1927 fu creata la speciale Amministrazione dei Monopoli di Stato, per esercitare "i servizi di monopolio di produzione, importazione e vendita dei sali e tabacchi e produzione e vendita del chinino di Stato". Questa istituzione, come spiega l'AAMS, ha inciso profondamente sul tessuto sociale ed economico del Paese, contribuendo alla nascita di nuovi insediamenti produttivi (le manifatture di tabacco) che modificarono la configurazione urbana di diverse zone d'Italia, in termini di maggior industrializzazione. L'efficienza e la continuità operativa dell'Amministrazione favorirono la creazione, nel corso del Novecento, di migliaia di posti di lavoro.
Nel 1999 è stata assegnata la produzione e la commercializzazione del sale e del tabacco all'Ente Tabacchi Italiani (ETI), poi acquisite, nel 2004, dalla British American Tobacco (BAT). Che ci ha visto lungo: come spiega la stessa multinazionale, "l'Italia è il primo produttore ed esportatore europeo di tabacco grezzo e il quinto esportatore mondiale per valore".
Quanto guadagna lo Stato sui tabacchi lavorati? Come spiega la stessa AAMS sul suo sito, tali prodotti sono gravati da diverse imposte: l'IVA, che è pari al 20% del prezzo di vendita al pubblico al netto dell'IVA stessa; l'imposta di consumo, più comunemente detta accisa, correlata al prezzo di vendita al pubblico che varia in relazione alla categoria del prodotto, e il dazio, che si applica solo qualora i prodotti provengano da paesi situati fuori dalla Unione Europea.
Possiamo quindi dire che il prezzo finale di vendita al pubblico di un prodotto risulta dalla somma di più componenti, quelle fiscali sopraccitate alle quali si aggiungono l'aggio del rivenditore, nella misura fissa del 10% del prezzo, e la quota di spettanza del produttore.
Per esempio, se consideriamo, per le sigarette, un prezzo pari a 100 avremo, con i valori arrotondati, che: 58,5 verranno versate nelle casse dell'erario a titolo di accisa; 17 andranno, ugualmente, allo Stato per il pagamento dell'IVA; 10 ricompenseranno il rivenditore, mentre 14,5 costituiranno l'incasso per il produttore. Come si può evincere lo Stato interviene in modo deciso sui tabacchi lavorati penalizzandone il consumo con una tassazione che sfiora il 75% del prezzo finale.
Con un introito non indifferente: nel bimestre gennaio-febbraio il gettito dell'imposta sul consumo dei tabacchi è stato di 1,7 miliardi di euro (su 58,9 miliardi di entrate totali).
Più o meno siamo a livello della benzina, visto che lo Stato guadagna con il prezioso derivato del petrolio il 64,93% (48,26 di tasse e 16,67 di IVA). Nonostante la pesante tassazione e i continui rincari, il tabacco continua comunque ad essere amato ed acquistato, e nessuno si mobilita, al contrario di quanto accade per i rincari della benzina, quando (spesso) lo Stato ritocca all'insù i prezzi dei tabacchi. Del resto fumare è un vizio, dover usare l'automobile per raggiungere il posto di lavoro una necessità.
Dunque, sigarette, sigari e tabacchi in genere continuano ad attrarre come quando la preziosa pianta fu introdotta dalle Americhe nella ricca Europa, in barba a editti regi e scomuniche, a crociate antifumo, a divieti sempre più estesi e a continui allarmi da parte dell'OMS o chicchessia. Lo Stato ringrazia, i polmoni un po' meno!
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