UNA PRIVATIZZAZIONE "SUI GENERIS"
La storia della privatizzazione di Autostrade risale al 1999, quando venne venduta dall'IRI ad una cordata di azionisti capeggiata da Edizione, la holding finanziaria della famiglia Benetton che controlla la società quotata Atlantia ed, a cascata, Autostrade per l'Italia, società controllata al 100% in cui sono confluite tutte le attività di concessione autostradale.
Oltre ad Edizione nel capitale di Atlantia campeggiano diversi investitori istituzionali (banche e investitori professionali) ed una larga fetta di investitori esteri. Un dettaglio non trascurabile per una società che, certamente, deve dimostrare di riuscire a remunerare gli azionisti/investitori, anche distribuendo ricchi dividendi. E questo mette in luce alcune distorsioni ed una responsabilità che, forse, non è solo di Atlantia, soggetto privato che mira a massimizzare i profitti (nel 2017 l'utile è ammontato a 968 milioni).
All'epoca della privatizzazione, infatti, non fu istituito come per altre privatizzazioni un regolatore indipendente, che potesse vigilare sull'attuazione degli investimenti e sui profili legati alla sicurezza. Autostrade quale società statale era sempre stata "l'unico controllore di se stesso", un fatto normale finché il soggetto era pubblico, come per la concedente Anas, ma divenuto paradossale nel momento in cui la proprietà è passata in mani private. Una leggerezza? Una dimenticanza?
Sta di fatto che il regolatore dei trasporti, pur previsto dalla normativa, è stato istituito solo nel 2011, quando è nata l'ART (Autorità Regolamentazione Trasporti), divenuta poi pienamente operativa solo nel 2013. Peccato che l'ART abbia competenza solo per le "nuove concessioni" e non su quelle precedentemente in essere.
UNO DEVE PAGARE PER TUTTI
La tragedia di Genova ha dunque portato alla luce numerose problematiche, economiche, normative, politiche, ma solo uno pagherà per tutti.
L'attuale governo punta il dito su Autostrade ed il MIT ha già fatto richiesta formale alla società di
ripristinare in tempi brevi l'infrastruttura (Ponte Morandi) e sopportare tutte le spese connesse.
Poi c'è la questione della revoca della concessione, chiesta a gran voce da tutti gli esponenti dle governo. Ma quanto costerebbe revocare la concessione?
La
revoca anticipata sarebbe un vero e proprio
"salasso" comportando costi nella misura di una finanziaria: la
convenzione scadrà nel 2042 ed il "prezzo" da pagare per chiuderla in via anticipata è pari a tutti gli
utili potenzialmente realizzabili sino a quella data (circa 23 miliardi di euro stando all'utile di 968 milioni realizzato nel 2017) detratta una
penalità di circa il 10% a fronte dell'inadempienza del concessionario (manutenzione). Si tratta di
20 miliardi di penale che
il governo non intende pagare.
Anche la revoca a scadenza (nel 2042) non sarà priva di costo, il quanto la proroga della concessione dal 2038 al 2042 approvata in primavera dalla Commissione europea prevede il pagamento di un valore di subentro fra 5 e 7 miliardi di euro, più lo sblocco di investimenti per 8,5 miliardi. Perché questo vantaggio? Lo propose all'UE l'Italia per coprire i maggiori oneri derivanti da una serie di investimenti in infrastrutture (dalla Gronda di Genova a alla terza corsia sulla Firenze-Pistoia e la quarta corsia sula diramazione Ravenna-Bologna San Lazzaro.
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