Hans
Blumenberg (1920-1996) non è molto conosciuto, ma è stato
uno dei più grandi filosofi tedeschi del dopoguerra. Al centro dei suoi studi è il mito.
I manuali di filosofia iniziano di solito descrivendo il passaggio dal mito al logos come il grande salto che fa nascere l'Occidente e che fa uscire l'umanità dalla sua infanzia e la proietta verso la maturità.
Blumenberg ritiene però che questa narrazione sia essa stessa un mito e che sotto l'uomo tecnologico della modernità rimanga, ineliminabile, l'uomo che si affida al mito per tentare di dare un senso all'esistenza e per fuggire dall'angoscia di un mondo che ha verso di lui una totale indifferenza. Lungi dall'essere superato dalla scienza e dalla tecnica,
il mito è in realtà la dimensione centrale del nostro modo di pensare.
Nel loro ambito, anche i mercati finanziari confermano la tesi di Blumenberg fabbricando incessantemente narrazioni che tentano di dare un senso al caos. In questo decennio, che si è aperto all'insegna di una crescente instabilità dopo quarant'anni di relativa calma, i miti dei mercati tornano ad avere, oltre alla funzione di spiegare, quella di consolare.
È consolatoria, in questo contesto, l'idea della
mean reversion, il ritorno inevitabile delle variabili alla loro media storica. È un'idea metafisica, una filosofia della storia che ha, alla base, il mito di un mondo che ritrova sempre il suo baricentro.
E così
l'inflazione deve essere per forza transitoria. Anche se la Fed ha abbandonato questa idea nel novembre scorso, il mercato l'ha raccolta e continua a coltivarla più o meno consapevolmente. Per parlare come Aristotele, è come se il luogo naturale dell'inflazione fosse lo zero (o il due per cento adottato a tavolino dalle banche centrali). Quarant'anni delle nostre vite sono lì a dimostrarlo, si pensa. Come conseguenza di questo bias, immancabilmente, da 18 mesi, il mercato si posiziona ogni volta per un'inflazione più bassa di quella che viene poi rilevata dalle statistiche.
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