Nel 2018, lo ricordiamo, una
Fed che voleva marcare la sua indipendenza dall'esecutivo e che riteneva (erroneamente, come si è poi visto) che i tagli di imposte alle imprese appena decisi dal Congresso avrebbero alimentato l'inflazione, alzò bruscamente i tassi e provocò una pesante correzione dell'azionario. I bond lunghi però si rafforzarono e bilanciarono in parte la discesa dell'azionario.
Nel 2022, annus horribilis, la Fed frenò ancora di più, dichiarandosi disposta a una recessione pur di abbattere l'inflazione, e azioni e bond scesero insieme, non dando scampo a nessuno. Qualcuno, in questi giorni, sta sollevando l'idea che il 2025 possa essere un anno certamente buono per l'economia, ma negativo per gli asset finanziari, tanto azioni quanto bond. Viene agitato lo spettro del 2022 come anno in cui la classica diversificazione tra azioni e bond smette di funzionare, perché la correlazione tra loro diventa positiva.
A noi sembra che, se il 2025 dovrà soffrire di qualche pena, l'analogia sarà con il 2018, non con il 2022. Ci sarà qualche fase, come quella che stiamo vivendo in queste ore, in cui la correzione coinvolgerà tutti gli asset, ma alla fine, tra bond e azioni, prevarrà una correlazione inversa.
Lo scenario generale, infatti, è molto più benigno di quello del 2022. L'inflazione è molto più bassa, le materie prime sono tranquille e alla Fed basterà rinviare i tagli dei tassi per segnalare la sua attenzione all'inflazione. Chi parla di rialzi dei tassi nel 2025 ipotizza uno scenario di coda, quello di un'amministrazione Trump che abbandona ogni prudenza e si incammina a marce forzate sulla strada del surriscaldamento.
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