Non è andata così, come sappiamo. Questa volta i
privati non sono particolarmente indebitati e pochi di loro, rispetto al passato, sono stati costretti all'insolvenza. I loro redditi nominali, del resto, hanno continuato a crescere, prima per i sussidi a pioggia durante il Covid e poi per gli aumenti salariali. Le
banche, dal canto loro, sono state salvate preventivamente dalla Fed, che ha permesso loro di non contabilizzare le perdite sui titoli in portafoglio e le ha rifinanziate senza porre condizioni.
Nessuna restrizione significativa del credito ha così avuto luogo. Le imprese, a parte la situazione speciale dell'immobiliare commerciale colpito dalla pandemia, si sono finanziate ai tassi bassissimi del 2020 e hanno risentito poco della stretta monetaria successiva, traendo invece grandi benefici dall'inflazione. Gli investimenti sono poi stati imponenti, sia quelli pubblici per finanziare i settori strategici, sia quelli privati sull'intelligenza artificiale.
Il risultato è
un'economia quasi indifferente ai tassi alti, con livelli di consumo e di investimento da boom e non certo da recessione. In questo contesto, se le banche centrali tagliano troppo i tassi di policy, rischiano di fare salire i tassi a lungo verso il 5 per cento e oltre. Se questa condizione si realizza, dicono i nuovi orsi, i multipli azionari devono contrarsi e le borse, nonostante la tenuta dell'economia, devono correggere, se non altro per la concorrenza dei rendimenti obbligazionari.
A rendere questo scenario più probabile, dicono, non è solo
l'avvicinarsi delle elezioni e la conseguente pressione per mantenere politiche espansive, ma anche il fatto che la
Fed, che si proclama e probabilmente si sente davvero restrittiva, continua a ragionare come nei passati cinquant'anni, pensando cioè a quei canali di trasmissione della stretta monetaria che in realtà non funzionano più.
D'altra parte, se
i privati sono diventati insensibili ai tassi, è anche perché l'enorme indebitamento contratto per uscire dalla pandemia è stato tutto a carico del settore pubblico. Sono dunque i bond governativi e non i mutui sulle case o i fallimenti aziendali l'epicentro di un'eventuale prossima crisi economica e finanziaria. Soprattutto in un contesto in cui la Fed è venditrice netta di bond per quel che resta del
Quantitative tightening. Ma è venditrice anche la banca centrale cinese, che continua a diversificare le sue riserve e lo potrebbe diventare anche la Banca del Giappone se dovesse trovarsi in difficoltà nella difesa del cambio dello yen.
Le tre aste consecutive andate male in questa ultima settimana non segnalano ancora difficoltà strutturali nel collocamento del debito americano, ma sono comunque un fenomeno che in altri tempi sarebbe stato difficile ipotizzare. Oggi dunque non è il debito privato ma il debito pubblico da tenere d'occhio. Sappiamo che il debitore pubblico ha spalle molto più robuste del debitore privato e che può sempre imporre nuove regole, in caso di bisogno, per collocare i suoi titoli. Sappiamo anche, però, che in queste condizioni diventa più difficile, rispetto al passato, trasmettere i tagli sui tassi di policy alla parte lunga della curva.
Fin qui i nuovi orsi. Per gli ottimisti resta ovviamente, come tema centrale, la speranza che l'inflazione riprenda presto a scendere. Nell'attesa, confermiamo la nostra preferenza per azioni e bond brevi e la nostra prudenza sui bond più lunghi.
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