Gli
USA, che invece sono
penalizzati da un forte disavanzo commerciale strutturale sull'estero e da poco risparmio interno, hanno visto a loro volta con estremo favore gli investimenti finanziari giapponesi in Treasury.
Questo equilibrio di interessi è venuto meno per via della politica monetaria restrittiva della Fed, cui la BoJ non si è potuta subito adeguare alzando i tassi come hanno fatto la Bce o la Banca d'Inghilterra: il colossale debito pubblico giapponese ha impedito finora di alzare i tassi, se non in modo modestissimo, portando a dicembre scorso quello sui prestiti a dieci anni allo 0,50%. E' ancora una inezia rispetto a quelli della Fed, della Bce o della BoE, ma è il segnale che in futuro converrà investire in Giappone anziché negli Usa, visto il costo raggiunto dalla copertura del rischio di svalutazione dello yen.
Sembra che negli
USA sia stata tirata la corda sbagliata,
usando la leva monetaria quando invece doveva essere la politica fiscale a dover tornare restrittiva.
Dopo la Cina, anche il Giappone, che è ancora il più grande sottoscrittore di titoli di Stato americani ha battuto in ritirata, riducendo le detenzioni: la regola secondo cui l'aumento dei tassi americani determina automaticamente un afflusso di capitali da tutto il mondo ha subito due eccezioni, da parte dei più grandi finanziatori del debito americano. Mentre nel caso della Cina la ragione è stata prevalentemente politica, per il Giappone la scelta è stata squisitamente valutaria e finanziaria: i capitali giapponesi ritornano a casa.
Il debito pubblico americano cerca finanziatori?Anche Tokio abbandona i Treasury
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