Questa svalutazione rispetto al dollaro comportava un ulteriore aumento del costo delle importazioni dei prodotti che sui mercati internazionali sono quotati in dollari, come quelli energetici, aggravando il fenomeno inflazionistico.
In pratica, mentre l'inflazione americana aveva origini fiscali, essendo determinata da un eccesso di spesa pubblica finanziata in disavanzo ed in un contesto di bassa disoccupazione, la
Fed ha adottato misure di violenta restrizione monetaria, aumentando i tassi e riducendo la liquidità: così facendo,
ha destabilizzato in molti Paesi la allocazione dei capitali, il sistema dei cambi e quello dei tassi di interesse.
Ed
è stato il Giappone a risentire più di ogni altro Paese di questo orientamento della Fed: c'è stato un vero e proprio crollo delle sue detenzioni di Treasury, che sono passate in un anno da 1.229 a 1.088 miliardi di dollari. La riduzione di 141 miliardi è stata praticamente identica a quella della Cina, che è stata di 144 miliardi. Nel caso del Giappone, la tendenza dello yen a svalutarsi rispetto al dollaro ha infatti aumentato notevolmente il costo della copertura contro questo rischio, arrivando ad eguagliare il tasso di rendimento dei Treasury: non valeva più la pena tenere fermi lì i capitali.
Si è rotto un equilibrio di interessi reciprocamente vantaggiosi tra Giappone e Stati Uniti che durava da decenni, con i giapponesi che sono stati sempre grandi acquirenti di titoli americani ritornando ad essere i primi creditori dopo che la Cina ha smesso di investire in Treasury.
Il
rapporto tra Giappone e Usa è stato in questi anni fortemente sinergico. Il primo ha un attivo commerciale strutturale sull'estero ma un enorme debito pubblico:
per evitare di affondare il bilancio con alte spese per interessi, la Banca centrale (BoJ) non solo deve quindi tenere bassi i tassi di interesse, ma deve anche acquistare direttamente gli stessi titoli di Stato che non hanno acquirenti perché rendono zero. Gli investitori giapponesi hanno sempre avuto quindi tutto l'interesse a reinvestire il surplus commerciale comprando i titoli di Stato americani, i Treasury, per via del buon rendimento garantito loro.
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