Trump ha ridato finalmente un ruolo agli USA in Siria: è rientrato in gioco in uno scacchiere da cui erano assenti, addirittura estromessi dalla strategia espansionistica russa: ha colmato il vuoto politico in cui si era cacciata la Amministrazione Obama.
Il quadro della guerra in Siria vede incrociarsi due strategie: quella dei sunniti contro gli sciiti, che riguarda anche l'Irak, e quella della Russia che cerca di ritornare ad essere una potenza globale e non solo regionale, con una nuova presenza nel Mediterraneo. Anche in Libia, infatti, Mosca sta sostenendo il governo di Tobruk che è in conflitto con quello insediato con il sostegno dell'Onu e degli Usa a Tripoli.
La presenza russa nel Mediterraneo inquieta non solo gli Usa, ma anche la Francia e la Gran Bretagna. Basta ricordare gli sforzi di anni, sin dai tempi in cui il generale egiziano Nasser governava, che servirono agli Usa per scalzare la Russia dal Mediterraneo, fino a rimanere inermi di fronte alla guerra del Kippur, che portò alla prima crisi petrolifera nel 1973. Colsero due piccioni con una fava: misero l'Europa in grave difficoltà, svuotarono i caveau delle loro banche centrali, che traboccavano di dollari, e rimarginarono l'orgoglio degli Arabi che era stato ferito in modo non rimarginabile per via della sconfitta subita nella guerra lampo del 1967.
Anche stavolta, lo stallo geopolitico è completo, perché si saldano quello in Medio Oriente con quello nel conflitto ucraino. Secondo Henry Kissinger, la partita si poteva chiudere con uno scambio: gli Usa cedono sulla questione della annessione della Crimea da parte di Mosca, ma la Russia si deve ritirare dal Mediterraneo, tornando una potenza solo regionale.
La partita innescata dalla iniziativa miliare americana si fa complessa.
Primo problema, i rapporti con la Turchia, che ha l'aspirazione di avere una leadership nell'area, prendendo il posto dell'Egitto. L'avvicinamento a Mosca, temporaneo, era dovuto all'utilizzo da parte americana della minoranza curda in Irak per combattere le forze dell'Isis. La stessa minoranza si trova anche nel nord della Siria ma soprattutto nel sud-est della Turchia stessa: una volta armata ed ammessa ad una ampia autonomia amministrativa in Irak, usata per combattere il regime siriano di Assad, è probabilissimo che ambisca a costituire una entità unica di tipo statuale, mettendo insieme i territori dei tre Stati in cui abita. La Russia, invece, ha sempre contrastato con estrema durezza le ambizioni separatiste, come è accaduto in Cecenia. In più, il Presidente turco Erdogan ha sempre sospettato che l'Amministrazione Obama avesse offerto asilo al suo più vigoroso oppositore politico Fethullah Gülen per osteggiarlo segretamente. Anzi, non ha mai fatto mistero di ritenerlo il vero mandante del fallito colpo di Stato della scorsa estate.
Con il cambio di Amministrazione negli Usa, e soprattutto con la reazione militare decisa da Donad Trump, anche Ankara può chiedere di vedere le carte: capire se anche il nuovo presidente americano è disposto a giocarsi il rapporto pluridecennale di alleanza con la Turchia con un riavvicinamento alla Russia, solo per utilizzare strumentalmente le minoranze curde nella guerra contro l'Isis in Irak e contro Assad in Siria. In conclusione: Erdogan mette sul tavolo degli Usa il suo progetto di repubblica presidenziale, di Turchia che torna ad avere dopo un secolo l'Islam come religione di Stato, che non vuole la creazione in prospettiva di una nazione Curda. Il disastro geopolitico compiuto da Hillary Clinton, che ideò le Primavere arabe, è difficile da rimediare.
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