La crisi è giunta a puntino: finalmente si può dare la spallata.
Nessuno ha voluto accettare la realtà: la finanza pubblica italiana non può avere un equilibrio strutturale tra entrate e spese finchè il debito pubblico rimane abnormemente elevato. Ci sono di mezzo oltre 80 miliardi di euro, pagati annualmente per gli interessi sul debito, prelevati con le tasse. Lo squilibrio strutturale da correggere era quello: si doveva abbattere il debito pubblico eccessivo. La soluzione più semplice è ancora oggi quella di conferire tutto il demanio fruttifero, immobili, aziende e diritti di concessione delle Pubbliche amministrazioni, ad un unico Fondo patrimoniale di cui lo Stato avrebbe comunque mantenuto la maggioranza delle quote, cedendo però ai privati il 49% della proprietà. Con il ricavato della vendita si riduce il debito pubblico di diverse centinaia di miliari di euro e si comincia davvero a ridurre sprechi ed inefficienze.
Ed invece no: a partire dal giugno 2012, ha prevalso l’isteria fiscale: tasse su tasse, aumenti su aumenti. Botte da orbi, dalle accise sui carburanti ai bolli sulle auto, passando per le barche e dall’aumento di due punti dell’Iva. Poi è venuta l’Imu: una vera e propria imposta patrimoniale, pagata anche sulla prima casa che ovviamente non è affittata. Viene usato lo stipendio o si attinge alla pensione: è una sovraimposta sui redditi. E’ stata una mazzata per tutti: i valori immobiliari sono caduti, le case costruite sono rimaste invendute, l’edilizia si è fermata.
E’ stato un capolavoro di cattiveria: i Governi tecnici sembrano aver provato gusto a punire gli italiani, ma non sono riusciti altro che a fabbricare altra disoccupazione, miseria, ed altro debito pubblico. I risparmi non vengono più investiti nel mattone, ma in Borsa: una girandola che fa comodo alla speculazione grande e piccola e che frutta ricche provvigioni ai gestori dei Fondi di investimento. Per loro, è arrivata la cuccagna.
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