È difficile crederlo: ma a maggio scorso, in Cina, l'inflazione dei prezzi al consumo è stata appena dello 0,2% rispetto ad un anno fa.
Vero è che, a partire dal secondo trimestre del 2022, il controllo ferreo delle attività sociali volto ad evitare la diffusione del Covid aveva fatto congelare il PIL, portando la crescita annua dal 4,8% registrato nel primo trimestre del 2022 allo 0,4% del secondo trimestre, determinando anche un forte calo dei prezzi alla produzione.
C'è un altro aspetto da considerare: in questi anni,
la Banca del Popolo Cinese non ha fatto nessuna operazione di immissione di liquidità sui mercati finanziari, ricomprando il debito pubblico come fanno la Fed e la Bce con i Qe. Lavora ancora in modo molto tradizionale, attraverso il sistema bancario, aumentando o riducendola liquidità mediante la manovra sul tasso di riserva obbligatoria sui depositi. E, naturalmente, attraverso operazioni di repo, pronti contro termine: offre liquidità in cambio di titoli, per un tempo limitato.
Anche sul versante delle
importazioni, non ci sono stati gli aumenti catastrofici dei prezzi che hanno colpito le economia occidentali: i cinesi hanno contratti di acquisto a lungo termine con i fornitori e non passano sulle Borse merci internazionali. Dove giocano fenomeni speculativi difficilmente controllabili.
La Cina si trova quindi in una situazione macroeconomica opposta a quella di Stati Uniti ed Europa, che sono alle prese con una fiammata inflazionistica violenta e duratura, che viene contrastata con manovre monetarie restrittive, riducendo la liquidità bancaria ed alzando i tassi di interesse.
Col
rischio, di cui la Fed, la Bce e la BoE sono ben consapevoli,
di creare le condizioni per una recessione. Anzi, tecnicamente l'Eurozona lo è già, per avere inanellato due trimestri con segno negativo. In pratica, ci stiamo giocando il rimbalzo economico che avevamo avuto tra la fine del 2021 ed il 2022, che aveva fatto riprendere il livello pre-Covid, del 2019.
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