(Teleborsa) - La scoperta, sebbene non propriamente detta perché è una conferma, è molto interessante e se la
tecnologia consentirà di trarne un utile ritorno, l’umanità potrebbe aver trovato la soluzione del
problema energetico. Le risorse sarebbero così ingenti che la domanda corretta da porsi non è quante ce ne siano ma "
se esiste un posto dove non siano disponibili".
Andiamo per gradi.
Charlie Paull è un geologo marino del
Monterey Bay Aquarium Research Institute di Moss Landing, California, che da anni si interessa alle ricerche sulla crosta terreste sottomarina e recentemente, assieme ad alcuni suoi colleghi dell'
United States Geological Survey, a bordo della Nave di ricerca
Western Flyer, ha fatto una straordinaria scoperta a largo delle coste Canadesi occidentali. A 1.800 metri di profondità è stata trovata una collinetta lunga 2000 metri ed alta dal fondo dell’oceano circa 60 metri tutta costituita da
metano nella forma idrata ed allo stato solido. Si è scoperto poi che il cumulo non era altro che un immenso tappo di un deposito di petrolio e metano.
Il metano in condizioni ambientali usuali è allo stato gassoso e solidifica all'impensabile temperatura di circa
-180° C, ma nei mari, ad oltre 300 metri di profondità, temperatura e pressione sono tali da farlo combinare con l’acqua e solidificarlo. E' comunque in uno stato instabile, un minimo
riscaldamento ambientale trasforma il metano idrato in uno dei più micidiali gas serra, ma questa è tutta un'altra storia di cui si darà presto notizia.
La presenza degli idrati di metano nei fondali marini è già noto all'industria
petrolifera che da sempre la teme perché ostruisce i condotti di estrazione e trivellazione del
petrolio. Quello che gli scienziati stanno, invece, confermando è che tale risorsa è molto diffusa e localizzata presso un po' tutte le
zone costiere oceaniche. Per i soli Stati uniti d'America questo potrebbe significare
2.000 anni di fabbisogno energetico soddisfatto. Nonostante ciò, gli USA sembrano distratti dalla nuova abbondanza di idrocarburi derivanti da rocce scistose, mentre altri Paesi, come il
Giappone, segnato dal recente incidente nucleare
Fukushima, sono apparsi più attenti a questa nuova risorsa, tant'è che il paese del
Sol Levante, nel solo 2014, ha investito nelle ricerche circa
110 milioni di dollari. Si calcola che nel futuro il settore otterrà circa un miliardo di dollari d'investimenti, una pallida misura rispetto alle analoghe cifre usuali nella
ricerca petrolifera, ma la strada sembra aperta e ben segnata.