(Teleborsa) - L'Argentina torna al centro della cronaca finanziaria per il crollo registrato dal peso, che ha richiamato alla mente le tragiche vicende del 2002, quando il Paese sudamericano andò in default. Un fallimento da 95 miliardi di dollari, che comportò perdite incredibili per molti risparmiatori, che avevano acquisto i famosi bond argentini, molto redditizi e largamente richiesti.
Il peso, solo ieri, ha subìto un'accelerazione al ribasso, scivolando del 15% contro il dollaro ed oltrepassando la soglia di 8 pesos per dollaro, ma il calo è stato poi ridimensionato da un intervento della banca centrale sul mercato, con l'acquisto di dollari per una cifra di circa 100 milioni. Una tendenza che è in atto da inizio anno e che ha portato la valuta argentina a svalutarsi di oltre il 18% in sole tre settimane.
La caduta del peso risponde alla decisione del governo di Buenos Aires di allentare le restrizioni sugli acquisti di valuta estera, poste dalla Presidentessa Christina Kirchner, che ancora
nel maggio scorso affermava di non voler svalutare la valuta locale per non erodere le riserve valutarie del Paese. Una decisione che è conseguita al rimpasto del governo, motivato dall'impossibilità di frenare un'inflazione galoppante (oggi al 25%).
La brusca frenata del peso, comunque, non è isolata e non è legata a fattori esclusivamente interni, ma si inserisce nell'ambito di un trend che sta caratterizzando le valute di molti altri Paesi emergenti, come la Turchia, il Sudafrica, il Brasile, la Russia, l'India e la Cina. Un movimento che risponde a logiche ben precise e che ha a che vedere con il "tapering", il ritiro degli stimoli monetari della Federal Reserve. L'austerity americana ha infatti prodotto un apprezzamento del biglietto verde, causando la caduta delle valute più fragili ed esposte alla volatilità dei mercati.