(Teleborsa) - Gli economisti si stanno interrogando se il clamoroso ribasso dei prezzi del greggio stia spargendo i semi della recessione che verrà.
Nel risiko internazionale della mappatura energetica, sottolinea un articolo di approfondimento su Bloomberg, i paesi importatori, per ora, sono i vincitori della guerra dei prezzi. In questo novero ci sono anche gli Stati Uniti, benché la produzione interna abbia raggiunto livelli significativi, la loro quota di importazione petrolifera si attesta ancora intorno al 50%.
Non tutti gli importatori però hanno avuto lo stesso colpo di fortuna, perché la denominazione in dollari del greggio ha fatto la differenza. Molti paesi hanno visto compensare il vantaggio di un calo dei prezzi, con una perdita delle rispettive valute.
La percezione comune è che a breve i prezzi dei prodotti raffinati debbano ancora scendere, confermando la ciclicità dei prezzi in ribasso alla fine dell’estate.
In funzione di ciò, i maggiori consensi degli analisti sposano l’idea che i risparmi dovuti alla minor spesa per i carburanti possano essere dirottati sui consumi, ma potrebbero anche alimentare i risparmi in risposta a tempi difficili come gli attuali. In un simile contesto, se ciò accadesse, le capacità produttive in eccesso e l’aumento delle scorte di magazzino farebbero avvitare ulteriormente i prezzi spingendo l’economia in deflazione.
Chi ha preso invece un duro colpo dal calo del greggio sono ovviamente i produttori e le società di impiantistica legate al settore. La Russia su tutte, con le sanzioni imposte dall’occidente che hanno minato la capacità di spesa pubblica alimentata dalle entrate petrolifere e i rischi di inadempienza per essere stata tagliata fuori dai mercati finanziari internazionali. Ma anche i paesi emergenti africani come Nigeria, Ghana ed Angola. Emblematico il caso del Venezuela, altro grosso esportatore di petrolio, che ha visto la propria valuta evaporare letteralmente contro il dollaro, da un fantasioso cambio ufficiale contro il biglietto verde di 6,29 bolivar per dollaro Usa, fino ai 103 sui mercati ufficiali e ai 700 su quello nero.
L’elemento catalizzante resta adesso l’azione della Fed sui tassi. Le stime prevedono un rialzo che verrà comunicato dal FOMC il prossimo 18 settembre. In rapporto causa effetto, però, la svalutazione dello Yuan cinese e la batosta ricevuta dai mercati azionari hanno raffreddato quest’ipotesi costringendo la Yellen a valutare quantomeno un ritardo, perché se dovessero combinarsi tutte insieme le forze negative all'orizzonte, il mondo potrebbe davvero cadere in una nuova e più rumorosa recessione.
Dall'inizio della settimana il petrolio ha messo a segno il più grosso rally degli ultimi 25 anni. Il 12% in soli tre giorni, ma non è questo il livello per riequilibrare lo scenario di fondo, devastato da oltre il 50% di ribasso dai massimi dell’anno scorso.
“Nel 2016 potremo avere una stabilizzazione dei prezzi tra 40 e 60 dollari al barile, solo se i rifornimenti supereranno la domanda”, ha detto Ian Taylor, CEO di Vitol Group, il più grosso trader indipendente di greggio in una intervista a Bloomberg. "Il mercato ha bisogno di vedere una significativa risposta dal lato dell'offerta per alleviare le attuali preoccupazioni sulla domanda globale”.
I prezzi del petrolio alla ricerca di un equilibrio, tra rilancio o recessione
02 settembre 2015 - 12.09