(Teleborsa) - Il 2024 è stato un anno importante per Jacopo Di Cera, segnato da una produzione artistica che ha saputo intrecciare tecnologia, impegno sociale e sperimentazione visiva. Dai temi di resilienza e forza raccontati in Souls alla Dynamo Art Gallery, al dialogo generazionale con Massimo Vitali in Sospesi, l’artista ha esplorato nuove prospettive, tanto zenitali quanto interiori, mostrando la sua capacità di innovare la fotografia, trasformandola in linguaggio universale per narrare storie di vita e promuovere progetti solidali.

Dopo l’asta benefica che l’ha visto protagonista con la sua opera, abbiamo incontrato Jacopo Di Cera per farci raccontare poetica e impegno.

Questo anno ti ha visto portare Souls alla Dynamo Art Gallery, un’opera che unisce arte e terapia. Puoi raccontarci come è nata questa esperienza e quale significato attribuisci all'uso delle ombre per raccontare la resilienza e la forza dei genitori dei ragazzi del Dynamo Camp?

Con dynamo ci siamo conosciuti durante la loro mostra di 2 anni fa in Triennale a Milano, una mostra intensa e ricca di divere opere di artisti che avevano partecipato nel tempo alle attività di Dynamo. Da li è nata un’attrazione che poi si è concretizzata in una progettualità avvenuta a Maggio del 2024. All’ingresso di Dynamo camp c’è una scritta, una citazioni di alcuni bambini che hanno vissuto l’esperienza e dice “L’unica aspetto negativo di Dynamo camp è che non si può raccontare”. Da qui l’idea di portare un tema di “cambiamento di punto vista”, un tema che mi è molto caro e che volevo sia trasmettere tramite un’opera co-generata con i genitori, sia farla diventare una “missione” più pratica per i genitori stessi che dovevano portarla avanti in autonomia durante il workshop. Questo percorso è stato molto intenso e i genitori mi hanno presentato dei lavori profondi, intensi, ricchi di vita e di loro stessi.

L’ombra è per me, infatti, un modo di rappresentare l’anima, di raccontare ciò che avviene dentro e che in quel momento una persona mi vuole raccontare di sé o che insieme vogliamo raccontare. Una rappresentazione che può essere riflessa solo attraverso questa forma e che un ritratto tradizionale non riuscirebbe a raccontare. Metterli insieme è stato poi un percorso che ha unito tutte queste “anime” creandone una forza unica e, a mio avviso, enorme.

Nel 2024 hai esplorato ulteriormente l’uso di droni e prospettive zenitali, come in Sospesi alla Maison Bosi. Come questa scelta tecnica arricchisce la tua capacità di raccontare storie sociali e cosa rappresenta per te il superamento delle gerarchie visive tradizionali?

Ho iniziato il percorso di racconto dell’Italianità da un punto di vista diverso ovvero dall’alto e perpendicolare - quasi a occhio di Dio - nel 2016 con l’avvento dei primi droni. Oggetti che avevo sempre osservato con distanza ma che hanno da subito catturato la mia attenzione. Poi feci il primo volo, ancora mi ricordo, a Procida, un’immagine che intuivo dal basso, una scena molto “italiana” ovvero di barche che si avvicinavano l’una all’altra a ora di pranzo per condividere insieme l’esperienza e ciò che ognuno aveva portato da mangiare a bordo. Una scena che ho sentito, ma che solo dal drone sono riuscito a “vedere”. Da lì ho detto “voglio raccontare un’Italia diversa”. Non c’è più profondità di campo, tutto è schiacciato e siamo tutti sullo stesso piano: una sorta di appiattimento sociale che ci permette di focalizzarci su ciò che avviene, sul contesto, sulle interconnessioni tra le persone e tra le persone e i luoghi.

Un nuovo modo di vedere e di raccontarci. E questo grazie all’avvento di una nuova tecnologia di un nuovo modo di poter scattare. Una macchina fotografica volante.

Con opere come Souls e Sospesi, questo è stato un anno significativo nel tuo percorso di fusione tra arte e impegno sociale. Quali sono state le sfide e le gratificazioni più importanti nel raccontare storie di vita attraverso il tuo linguaggio visivo?

Da sempre, da quando ho preso in mano la prima macchina fotografica ho sempre avuto la spinta a raccontare storie. A raccontare ciò che non sempre si riesce a vedere. In una primissima fase iniziale con reportage come la lotta di galli clandestini a Cuba o i ragazzi che si allenano nel parkur sui tetti di Gerusalemme. Storie di vita che mi hanno permesso di entrare nel mondo della fotografia in punta di piedi.

Poi ho cambiato rotta e ho iniziato a disegnare progetti artistici sempre legati a temi sociali come “Fino alla fine del mar”e, un progetto nato dai resti dei barconi dei migranti abbandonati sulla spiaggia di Lampedusa e che mi hanno permesso di raccontare un tema ad oggi ancora fortemente contemporaneo come l’immigrazione ma in una chiave diversa, più astratta e più materica. Infatti le immagini di questi dettagli dei barconi sono state poi stampate su pezzi di legno e resinate a mano. Un lavoro “fotomaterico” che mi ha permesso di raccontare altre storie importanti per noi come il terribile terremoto di Amatrice (con il progetto il Rumore dell’Assenza) e un tema a me molto caro come il pendolarismo con MiRo (Milano – Roma).

Nel 2024 hai usato la fotografia per dare voce a storie spesso invisibili. Come percepisci il ruolo della fotografia oggi, in un contesto sempre più frammentato e digitale, e quale contributo vuoi dare attraverso i tuoi scatti?

La fotografia mi ha permesso di raccontare tante, tantissime storie. La fotografia è un’arma fantastica che ci ha permesso di conoscere ciò che non sempre riusciamo a vedere. La fotografia come arte e come strumento di narrazione deve essere assolutamente protetto e valorizzato soprattutto in un contesto di over produzione avvenuto attraverso il passaggio da analogico a digitale e che avremo ancor di più con le nuove tecnologie come l’AI generativa. La produzione di “immagini” e non di “fotografie” sarà sempre maggiore, ma questo non deve essere un problema ma un’opportunità. Non vedo mai i cambiamenti nel loro lato “oscuro” ma cerco sempre di osservare l’altro lato della luna. Avere tanta produzione ci permetterà di elevare la qualità, di diventare sempre più selettivi e di portare gli artisti, i fotografi, i narratori di storie ad alzare sempre di più l’asticella.

Toscani raccontò ai suoi studenti che una volta fece girare per il Duomo di Milano un asino con attaccata una macchina fotografica che faceva una foto ogni 5 secondi. In mezzo a quelle centinaia di foto c’era sicuramente una foto bella, una foto “wow” che poteva raccontare qualcosa di interessante di Milano. Ma non c’era un pensiero, non c’era una progettualità, non c’era uno studio, un percorso. Ecco, questo è ciò che un fotografo deve fare, percorrere per potere distinguersi e crescere nella sua arte e nei suoi racconti, in un periodo dove sicuramente non abbiamo carestia di immagini, ma carestia di tempo di qualità, per osservare, capire e sentire.

In Sospesi, mostra alla Galleria Bosi di Roma, hai dialogato con Massimo Vitali esplorando l’evoluzione dell’identità italiana. Come hai vissuto questo confronto generazionale nel 2024, e quale messaggio vuoi trasmettere sull’Italia contemporanea attraverso la tua prospettiva artistica?

Il dialogo con Massimo è stato un viaggio molto affascinante. Siamo riusciti a raccontare tre storie, tre storie importanti del nostro paese, con visioni, tempi e modalità diverse. Massimo entra nella scena e racconta ogni singolo personaggio, nel suo ruolo e nel suo livello di protagonismo dell'immagine attraverso un “punto di vista del principe”. Il mio lavoro invece aiuta a vedere la scena e a vivere i soggetti attraverso un occhio neutrale, elevato, una sorta di “occhio di Dio”, mettendo tutti sullo stesso piano, su un unico livello.

Sempre parlando di solidarietà, a novembre 2024, durante l’evento benefico negli spazi di Edit Porto Urbano a Torino, le tue opere si sono intrecciate con la missione di Dynamo Camp a sostegno di bambini affetti da gravi patologie. Che ruolo pensi abbia l’arte nel sensibilizzare e sostenere progetti di solidarietà come quelli promossi da Dynamo Camp?

L’arte è il linguaggio universale per eccellenza. L’arte aiuta ad entrare nei cuori e nelle menti nel modo più semplice possibile. Quindi l’arte ha l’onore e onere di poter parlare a tutti e aiutare tutti a parlare di temi su cui deve nascere una forte sensibilizzazione e un conseguente sostegno. Abbiamo lavorato con i genitori dei bambini al Dynamo camp attraverso il linguaggio artistico: ognuno ha potuto esprimere e tirare fuori pensieri ed emozioni attraverso l’arte. E’ stato un viaggio bellissimo, una connessione unica, e l’arte è stato il mezzo.



(Foto: Hart Studio )