(Teleborsa) - Nonostante i quattro anni passati, segnati da pandemia, guerra, inflazione e rialzi dei tassi di interesse, il mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli di massimo con riferimento a molti indicatori. Rispetto alla fine del 2019, l’occupazione è cresciuta di 1 milione e 262 mila unità di lavoro (+ 5.4%), raggiungendo i massimi storici. I contributi più rilevanti sono venuti da servizi (+ 65%) e costruzioni (+ 29%), coerentemente con i settori che più hanno contribuito alla ripresa dell’economia. Tuttavia, i dati più recenti evidenziano un rallentamento nella crescita degli occupati e un ripiegamento degli indicatori di struttura, con la leggera riduzione del tasso di attività e la stabilizzazione del tasso di occupazione. È quanto emerge dal Monitor “L’occupazione aumenta, ma aumenta anche la povertà”, realizzato da Area Studi Legacoop e Prometeia.

Ma. a fronte di questo andamento positivo del mercato del lavoro, le retribuzioni reali per occupato mostrano segni di debolezza, non avendo ancora recuperato i livelli pre-crisi in nessun settore. E se migliorano gli indicatori di benessere, con una riduzione dell’incidenza di lavoratori poveri e del part time involontario, sono invece aumentati gli individui in povertà assoluta, che passano dal 7.6% nel 2019 al 9.7% nel 2023.

“Il ciclo aperto all’indomani della pandemia -afferma Simone Gamberini, Presidente di Legacoop- è finito. Lascia in eredità una situazione a chiaroscuri con molti tratti inediti. Da un lato, il costante rallentamento dell’economia ci ha condotto alla stagnazione, sotto la pressione dei costi delle materie prime, dell’energia, dell’inflazione, dei tassi di interesse, della carenza di manodopera e del crescente carovita. Oggi, dopo una lunga e inesorabile caduta, la situazione dell’industria e del manifatturiero, in particolare, fanno presagire addirittura segni di recessione; ma, dall’altra parte, questo triennio ha segnato anche aspetti positivi, per certi versi sorprendenti. Innanzitutto, che il nostro sistema produttivo è vitale, reattivo e, a differenza di altri, negli anni scorsi ha investito in innovazione e si è aggiornato più di quanto ci si aspettasse. Il balzo post-pandemico in questo senso ha sorpreso tutti, ha coinvolto il Mezzogiorno, ha sostenuto una crescita dell’occupazione record, e permesso pure di soddisfare un perdurante alto livello della domanda, si può dire contro tutto e tutti. Ecco, se avessimo imparato la lezione, oggi non saremmo a parlare di imminenti politiche restrittive, ma di sostegno a un ciclo di investimenti pubblici e privati secondo un piano di crescita che allontani questo paese e questo continente dalle percentuali da zero virgola a cui lo si vuole costringere. È questa la via per tornare a far crescere produttività e retribuzioni, per eliminare il lavoro povero, per includere chi è scivolato sotto la inaccettabile soglia di povertà. Dobbiamo unificare il Paese nello sviluppo, non nella stagnazione”.


La tendenza ad una crescita dell’occupazione, superiore a quella registrata nelle fasi espansive degli ultimi decenni, accomuna diversi paesi europei e può essere interpretata come una risposta a un costo del lavoro rimasto relativamente contenuto e a una composizione della crescita più spostata su settori tradizionalmente più “labour intensive”. Come detto, rispetto alla fine del 2019 l’occupazione ha registrato una crescita complessiva di 1 milione e 262 mila unità di lavoro (+ 5.4%), con differenze molto marcate nei diversi settori. L’incremento maggiore è quello segnato dai servizi, con 817mila unità in più (+ 65%), mentre poco meno di un terzo dell’incremento complessivo è imputabile alle costruzioni, con 366 mila unità in più (+ 29%), destinato in larga misura a rientrare con il termine del Superbonus. Seguono la P.A. con 102 mila unità in più e l’industria in senso stretto con 76 mila. Saldo negativo di 99 mila unità, invece, per l’agricoltura.


Contemporaneamente, il tasso di occupazione e quello di attività sono saliti ai massimi storici e il tasso di disoccupazione, a settembre 2024, è sceso al 6.1% dai livelli intorno al 10% registrati fino a metà 2021 (i disoccupati sono scesi a quota 1 milione e 550 mila). Rispetto al livello precedente la crisi pandemica, il calo della disoccupazione è stato di 3.7 punti percentuali nel totale ed ha interessato soprattutto i più giovani, con un calo di oltre 10 punti percentuali nella classe 15-24 anni (dal 28.8% al 18.3%). La discesa del tasso di disoccupazione si è accentuata nei trimestri più recenti, quando invece la crescita del PIL ha rallentato. Al contempo si è prima stabilizzato e poi leggermente ridotto il tasso di attività, riflesso della bassa crescita delle forze di lavoro.
In miglioramento appaiono anche gli indicatori relativi ai lavoratori poveri. Se tra il 2019 e il 2022 si è osservata una relativa stabilità di questa componente del mercato del lavoro, tra il 2022 e il 2023 la percentuale di lavoratori poveri è scesa in misura rilevante (dall’11.5% al 9.9%) sia nella componente maschile (dal 13.2% all’11.5%) sia in quella femminile (dal 9.3% al 7.7%).

A fronte di questi indicatori positivi, l’analisi di Area Studi Legacoop e Prometeia evidenzia però come la crisi inflazionistica abbia tagliato il potere di acquisto dei salari in tutti i settori, colpendo maggiormente i lavoratori nelle costruzioni, senza che il recupero osservato nel 2023 abbia consentito di recuperare i livelli pre-crisi. Le retribuzioni pro-capite in termini reali sono infatti ancora inferiori ai livelli di fine 2019: - 5 punti percentuali nelle costruzioni, - 4.2 nei servizi privati e -2,5 nell’industria in senso stretto.

Altro indicatore che segna un peggioramento è quello della percentuale delle persone in povertà assoluta, che risulta in crescita in tutte le aree del Paese. A livello nazionale, l’indicatore è cresciuto di 2.1 punti, dal 7.6% nel 2019 al 9.7% nel 2023. Tra il 2022 e il 2023, l’incidenza di poveri assoluti è rimasta invariata, ma è cambiata la composizione tra le aree del paese, in particolare a scapito del Nord e del Centro dove il valore è aumentato di 0.4 punti percentuali (rispettivamente, dall’8.5% all’8.9% e dal 7.5% al 7.9%) e, invece, a favore del Mezzogiorno dove si è ridotto di 0.6 punti. L’invarianza tra il 2022 e il 2023 riflette il fatto che la crisi inflazionistica ha colpito
maggiormente le fasce più povere della popolazione.

Chiaro segno di come le politiche sociali di sostegno ai più fragili per affrontare le crisi degli ultimi anni, per quanto in grado di arginare
l’impatto negativo soprattutto dello shock inflazionistico, non sono state sufficienti. La povertà va infatti affrontata con molteplici misure: dirette (trasferimenti, salario minimo) e indirette che agiscono sulle caratteristiche familiari e individuali che espongono maggiormente alla povertà (grado di istruzione, presenza di minori, partecipazione femminile).