(Teleborsa) - Dal 1996 ad oggi le medie imprese manifatturiere italiane hanno maturato rispetto al PIL un vantaggio del 34,1%, la maggior parte del quale sviluppato dal 2009. Nel confronto con le grandi imprese manifatturiere italiane, nello stesso periodo, le medie hanno registrato migliori performance sotto molti punti di vista: hanno ottenuto una crescita del fatturato più che doppia (+108,8% vs +64,4%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53% vs +38,6%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4% vs +57%). Si è inoltre registrato un significativo ampliamento della base occupazionale (+39,8% vs -12,5%), che le ha anche consentito di affermarsi a livello internazionale: la loro produttività è superiore del 21,5% a quella delle omologhe tedesche e francesi.

È quanto emerge dal XXI Rapporto dedicato alle medie imprese manifatturiere italiane da Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne. L'indagine copre l'universo delle medie imprese industriali manifatturiere italiane, considerando tali le società di capitali che: hanno una forza lavoro compresa tra 50 e 499 unità, un volume di vendite non inferiore a 17 e non superiore a 370 milioni di euro, un assetto proprietario autonomo riconducibile al controllo familiare.

Il rapporto con l'estero

Un aspetto peculiare delle medie imprese riguarda il fatto che ricchezza e occupazione sono prodotte prevalentemente in Italia. L'88,2% non ha una sede produttiva all'estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell'output. Il tema del re-shoring appare di poca rilevanza, con l'88,8% che si avvale di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all'estero è pari al 43,2% del fatturato.

Le medie imprese manifatturiere italiane hanno attratto l'attenzione degli stranieri: oggi ne avremmo circa 210 in più se queste non fossero passate nell'ultimo decennio sotto il controllo di azionisti esteri, un quarto dei quali proprio tedeschi e francesi.

Il peso del fisco

Il tax rate effettivo delle medie imprese è oggi attorno al 21,5% contro il 17,5% delle grandi, ma in passato lo spread è stato anche più ampio, oltre 8 punti nel 2011. Se nell'ultimo decennio le medie imprese avessero avuto la medesima pressione fiscale delle grandi avrebbero ottenuto maggiori risorse per 6,5 miliardi di euro. Nel confronto con i competitor stranieri, le nostre medie imprese si percepiscono svantaggiate proprio in termini di struttura dei costi (50,5%), di efficienza della Pubblica Amministrazione (30,2%) e di qualità della dotazione infrastrutturale del paese (22%).

Il passaggio generazionale

Il 47,2% delle medie imprese ha risolto il passaggio generazionale mentre il 17,4% lo sta affrontando, ma non ha terminato il processo. Per il 26,2% il tema non è in agenda perché gli eredi sono troppo giovani, ma il restante 9,2% è in oggettiva difficoltà dovendo fronteggiare la mancanza di eredi, la loro eccessiva numerosità o i dissidi tra soci. In sintesi, per 1 impresa su 4 il passaggio o non è perfezionato o rappresenta un vero ostacolo.

Le medie imprese con problemi di passaggio generazionale investiranno nel triennio 2022-24 meno nella formazione manageriale per innovare i modelli di business (38% vs 50% nel caso di quelle senza problemi), meno sull’innovazione di processo e organizzativa (64% vs 71%) e nell'innovazione di prodotto e di marketing (47% vs 61%).

La spinta di green e digitale

Il 52% delle medie imprese che ha investito negli ultimi cinque anni nella Duplice transizione digitale ed ecologica conta di superare nel 2022 i livelli produttivi pre-Covid. Una quota che scende al 35% nel caso di chi ha investito solo nel digitale e al 31% per le imprese che hanno puntato soltanto sul green, fino ad arrivare al 21% laddove non sia stato effettuato alcun investimento in questa direzione.