(Teleborsa) - Si fa sempre più agguerrita la polemica tra Nord e Sud Europa sul cosiddetto "Made in", ossia l'obbligo di indicare il Paese di provenienza delle merci vendute in Europa.

Giovedì il Consiglio Competitività si riunirà a Bruxelles per votare, tra le altre cose, il famigerato articolo 7 del Regolamento sulla sicurezza generale dei prodotti. Quello che disciplina l'applicazione del cosiddetto "Made in", appunto.

Come noto, questo dossier ha spaccato l'Europa in due: da una parte figurano quei Paesi a forte tradizione manifatturiera come Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Malta che spingono per regole stringenti.

Dal'altra il blocco di Nazioni come Germania, Svezia, Gran Bretagna e Olanda che invece vogliono essere libere di griffare con il marchio nazionale anche prodotti arrivati dalla Cina e da altri Paesi "low cost". Un blocco, questo, in maggioranza e con un gran peso a Bruxelles.

Ecco perché di recente la Presidenza lettone ha tentato di proporre una via di mezzo, ossia l'approvazione del "Made in" solo per calzature e ceramica domestica.

Ma né il Governo né l'associazione degli industriali accettano questo compromesso al ribasso. Matteo Renzi si sta muovendo per modificare i termini del dossier mentre Confindustria ha detto chiaramente "no" alla proposta della Lettonia, parlando di "soluzione inaccettabile".

"Il campo di applicazione previsto sarebbe troppo limitato in quanto prenderebbe in considerazione soltanto il settore delle calzature e parte di quello della ceramica, escludendo comparti fondamentali come le piastrelle ed almeno altri tre interi settori cruciali per l’industria italiana, come il tessile, l’arredamento e la gioielleria", ha spiegato Lisa Ferrarini, Vice Presidente di Confindustria per l'Europa, ricordando che la proposta della Commissione europea che è stata approvata a larga maggioranza dal Parlamento europeo, riguardava tutti i prodotti industriali destinati al consumo.

"Da tutti i settori, passare a poco più di uno ci sembra solo un contentino", afferma.