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Confimi Industria, Paolo Agnelli su crisi piccole e medie imprese

Intervistato da Teleborsa Presidente Confederazione Industria Manifatturiera Italiana e imprenditore di terza generazione nel settore alluminio e pentole professionali

Economia
Confimi Industria, Paolo Agnelli su crisi piccole e medie imprese
(Teleborsa) - Lo scorso 28 aprile Confimi Industria ha presentato le proprie considerazioni sul DL Imprese al Presidente della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, Raffaele Trano. L’audizione avvenuta in video conferenza ha permesso alla Confederazione del manifatturiero italiano di fare il punto avanzando perplessità e proposte.

Riprendendo i temi affrontati in quella circostanza, rispetto alla crisi economica che attanaglia in particolare le piccole e medie imprese, Teleborsa ha intervistato Paolo Agnelli, presidente di Confimi Industria, la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata rappresenta circa 40 mila imprese per 495 mila dipendenti con un fatturato aggregato di quasi 80 miliardi di euro.

Paolo Agnelli, classe 1951, di Lallio, provincia di Bergamo, imprenditore di terza generazione, è Presidente del Gruppo Alluminio Agnelli, azienda (nata nel 1907) leader nel settore dell’estrusione dell’alluminio e delle pentole professionali, nota anche per aver realizzato "pentole d'oro". E' Presidente di Confimi Industria dal 2012, anno della sua costituzione, con incarico al vertice dell'Associazione confermato per due mandati.


Confimi Industria sta facendo appello al Governo affinché, in una situazione di profonda incertezza per il mondo delle imprese, soprattutto piccole e medie, venga garantita una iniezione di liquidità che ne salvaguardi l’esistenza. Cosa viene richiesto in particolare?

"La liquidità serviva due mesi fa quando il Governo promesso una iniezione di 400 miliardi, operazione mai svolta prima d’ora, ma in effetti si è rivelato un bluff perché si trattava di garanzie. La differenza tra garanzie e soldi è evidente a tutti. Alla fine, hanno fatto l’errore di non valutare ciò che ha prodotto la situazione emergenziale. Quando si hanno 30.000 morti, una calamità del genere, un lockdown completo a livello nazionale, una pandemia in corso, non mi sembra che si possano utilizzare degli strumenti convenzionali, vale a dire ciò che nelle aziende si chiama ordinaria o straordinaria amministrazione. In un evento del genere hanno utilizzato l’ordinaria amministrazione, che significa accettare tout-court le normative europee, per cui è vietato l’aiuto all’imprese che non siano più solide, non poter dare il 100% di garanzia ma solo il 90% inserendo le banche a giudizio dello stato di salute e informare sul merito di credito delle imprese. Ciò significa che se prima del COVID-19 le aziende avevano difficoltà, non meritano assolutamente nessun aiuto. In altre parole, chi è in difficoltà deve chiudere. E in Italia sappiamo che stanno chiudendo 93.000 aziende l’anno, per cui è chiaro che le aziende non stanno bene. Se poi si inserisce tutta la burocrazia, quasi nessuno prende i soldi. Le aziende hanno chiesto ma non hanno ottenuto. Al momento della riapertura di tutte le industrie manifatturiere italiane, solo il 60% lo hanno fatto. Ciò è dovuto alla mancanza immediata di danaro per comprare le materie prime e quant’altro per poter produrre".

Già prima della pandemia nel nostro Paese si registrava la chiusura di 250 aziende al giorno. Un quadro che starebbe per aggravarsi. Quale tipo di intervento potrebbe scongiurare una prospettiva così negativa?

"Il problema risale a dieci anni fa. In questi anni hanno chiuso oltre 900.000 imprese. Secondo me l’Europa è stato il nostro male, perchè impedendo gli aiuti alle imprese in difficoltà, impedendo la riduzione di determinati costi, a cominciare da quello del lavoro, gli investimenti pubblici, ha portato l’Italia a soffrirne. In tutti i sensi. Le prime ad accusare il colpo sono state le aziende. Non avendo protetto il made in Italy e il mercato italiano, senza fare nessuna azione per impedire l’ingresso di merci a nazioni che agiscono in dumping, senza rispettare il protocollo di Kyoto, gli accordi sindacali, le famiglie, le persone, si finisce per giocare una partita impari. Alle aziende italiane corre l’obbligo giustamente di depurare le acque e l’aria, trattare bene i dipendenti, garantire un welfare serio. Stiamo parlando di Paesi e mondi completamente diversi, che se accomunati nella globalizzazione fanno sì che l’Italia chiude e altre nazioni vanno avanti".

Cosa crede sia necessario fare, in vista della nuova scadenza del 18 maggio della Fase 2, per garantire la riapertura delle attività e delle imprese ancora ferme?

"Ormai le imprese sono quasi tutte ripartite. Rimangono solo ristoranti, pizzerie, boutique, parrucchieri. Questi dovranno usare con maggiore precisione le norme già in essere, che sono il distanziamento tra i clienti, l’uso delle mascherine e di sanificanti, il controllo della temperatura corporea prima di entrare; tutto quello che già facciamo nelle fabbriche. Le disposizioni saranno maggiormente acuite nei ristoranti, perché dovranno tutto mantenere la distanza tra i tavoli e i clienti. Questo è ciò che dovranno fare tutti, ma vedo che sono già abbastanza avanti. Abbiamo scoperto che gli italiani sono meglio di quanto ci descrivono e ci reputiamo".
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